La tradizione della fòcara di Novoli

03.02.2014 08:50

A Novoli, il 16 dicembre 2012 ed il 15 dicembre 2013, la settima e l’ottava edizione della festa della vite si sono tenute di domenica e non di sabato com’è avvenuto per tutte le sei precedenti edizioni. Dai discorsi tenuti dalle autorità intervenute alla manifestazione non si è riusciti a capire le ragioni che sono state alla base della novità introdotta. Fino a due anni fa si diceva che la festa di metà dicembre (sempre di sabato) aveva il nobilissimo obiettivo di tramandare alle giovanissime generazioni novolesi (i bambini della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, nonché i ragazzi della scuola secondaria di primo grado) la tradizione del rito della costruzione della fòcara, tanto che gli anziani costruttori e alcuni scolari intervenuti si davano reciprocamente le fascine di tralci di vite in una sorta di passaggio di testimonio della memoria.

     Perché le scuole cittadine non sono più presenti? Forse che quell’obiettivo non è più valido ed attuale? O, forse, perché di domenica discenti e docenti preferiscono pensare ad altro? Bisognerebbe da parte di qualcuno degli ideatori ed organizzatori dell’iniziativa dare una risposta perché i cittadini esigono dei chiarimenti. Non è possibile che da un anno all’altro si cambino programmi ad libitum

     Il popolo novolese è stanco di essere chiamato soltanto allorché si tratta di dare l’obolo volontario al “Comitato festa”. Il popolo novolese non deve essere messo di fronte al fatto compiuto. Al popolo novolese si deve chiedere, oltre all’offerta del denaro, anche il contributo d’idee, soprattutto quando s’intraprendono strade nuove che non tutti sono disponibili a percorrere. Possibile che in un anno di tempo non si tenga mai una pubblica assemblea per fare il punto della situazione, per discutere, cioè, sui punti di forza, ma anche su quelli di debolezza, registrati nell’ ultima manifestazione? Le scelte devono essere quanto più possibile condivise, soprattutto quando esse innovano profondamente una tradizione ormai secolare. Si parla tanto di tradizione nelle pochissime occasioni in cui gli oratori di turno, spesso forestieri, disquisiscono dottamente sull’impor tanza di conservare e tramandare la memoria storica del nostro paese; ma, quasi mai si esplicita concretamente e puntualmente qual è stata nel suo sviluppo storico tale tradizione. Quelli della mia generazione ricordano perfettamente che la prima legna, li taccari (= grossi tronchi), veniva depositata a llu giardinettu, cioè, in Piazza Gaetano Brunetti (attuale Totò Vetrugno) la vigilia dell’Immacolata, giusto un mese prima dell’inizio dell’erezione del falò, che avveniva il 7 gennaio, all’inizio della novena. Per tutto il mese di dicembre e metà gennaio era una ininterrotta teoria di traìni (carri trainati da cavalli) che scaricavano sul piazzale le fascine di legna risultato della rimonda della vite (sarmente). Su lli taccari e le sarmente, negli anni della mia fanciullezza, ho giocato con i miei compagni vicini di casa, durante le vacanze natalizie, inseguendoci sulle cataste di legna o costruendo traballanti capannine dove ci nascondevamo allorché la mamma veniva a cercarci per farci rincasare. Era gioco forza che sotto il continuo calpestìo dei nostri piedi le fascine si aprissero, costringendo gli operai addetti alla costruzione della fòcara a legarle di nuovo. Poiché i giochi avvenivano soprattutto di sera, per qualche anno, a sorvegliare la legna fu messo un guardiano col compito di farci stare lontano dal piazzale. È inutile dire che il tentativo fallì, perché noi, calèra (monelli), gli davamo del filo da torcere per perché, in piccoli gruppi, correvamo in tutte le direzioni costringendo a continue rincorse la guardia di turno, la quale, visto che con le cattive non riusciva a farci stare buoni, cambiò strategia. Vicino l’abitazione te la Maria te lu sale, ogni sera accendeva nna focared- dha (un piccolo falò), intorno alla quale aveva sistemato dei conci di tufo dove ci invitava a sedere per raccon- tarci dei fantastici cunti (favole e fiabe) che ci affascinavano talmente tanto che, quando la mamma veniva a prelevarci, a malincuore salutavamo quell’ uomo, il quale ci dava a modo suo la “buona notte” facendo la conta toccandoci ad uno a uno, mentre recitava la seguente filastrocca:

“Oru, oru, oru! 

Ogne unu a casa loru!

Riddru, riddru, riddru! 

Ogne unu a casa iddru!”

 

     Riprese le lezioni, dopo la festa della Befana, eseguiti in fretta e furia i compiti, trascorrevo tutto il pomeriggio addossato sul muro della casa te la Cinzina furnara. Mi piaceva, oltre ad assistere alla costruzione della fòcara, ascoltare i commenti degli anziani che lì, ogni giorno, si davano appuntamento godendo del tepore di un pallido sole, perché l’abitazione era situata a lla mantagnata (al riparo dal vento).

     Per quanto concerne la forma esteriore della fòcara, i ragazzi di oggi hanno ormai acquisito il concetto che il falò ogni anno deve essere costruito a forma di torta nuziale, perché così l’hanno sempre visto da quando sono venuti al mondo. I loro genitori, invece, se lo ricordano a forma di cono, di pignune (grossa pigna), che ricalcava la tipica architettura della bica costruita sulle aie con i covoni di grano in attesa della pisatura (trebbiatura), effettuata di norma con l’ausilio di uno o due cavalli che, legati ad una fune e bendati per evitare capogiri, giravano in cerchio sulla massa dei cereali. Bisognerebbe spiegare perché, soprattutto dagli anni ’80 del secolo scorso, si sia iniziato a erigere la fòcara nell’attuale forma, a due, tre o quattro piani. Non certamente per richiamare la torta nuziale, come qualcuno in epoca di sfrenato consumismo potrebbe pensa- re, né per alludere alle antichissime mesopotamiche ziggurat, come è definito il nostro falò da qualche persona ben istruita, che forse non sa che, in tutta Europa e nel bacino del Mar Mediterraneo, l’unico esempio che possa richiamare la ziggurat l’abbiamo in Sardegna, a metà strada tra Sassari e Porto Torres, al Km. 222,300 della S. S. 131 (la Carlo Felice): trattasi dell’Altare di Monte d’Accoddi, monumento preistorico del 4.500 a. C., sorto almeno 2000 anni prima dei più antichi nuraghi (cfr. per la storia e la descrizione E. CONTU, L’altare preistorico di Monte d’Accoddi, Sassari, 2000 che contiene una ricca bibliografia).

     La scelta del falò a piani fu quasi obbligata dalla concomitanza di due circostanze: la prima concerne il fatto che a poco a poco sono cominciati a venire meno quei bravissimi costruttori in grado di stare seduti su un’unica lunghissima scala (fatta di tante scale più piccole legate insieme) da terra fino alla cima del falò. Ricordo che un anno (era un giorno di gennaio 1968) la scala si ruppe in un punto di giuntura facendo cadere a terra tutti. Qualche operaio finì in ospedale. Il falò quell’anno fu ultimato con l’ausilio di una gru. Soprattutto, oggi, non si è in grado di chiudere” il falò col caratteristico “sieddhu”, la cima, cioè, su cui si impiantava “la marangia te papa Peppu” o la bandiera d’Italia addobbata con le spighe di grano intrecciate. La struttura a piani (negli ultimi anni, 2 nel 1983, 1986, 1990, 1993, 1994, 1997, 2005; 4 nel 1982, 1987, 2001, 2009; 3 nel 1984, 1988, 1991, 1992, 1996, 1998, 1999, 2000, 2002, 2003, 2004, 2006, 2007, 2008, 2010, 2011, 2012, 2013) meglio garantisce di lavorare con più sicurezza, rispetto alla costruzione del falò a forma di pignune (ultima esecuzione nel 1985), anche se le relative norme non sono compiutamente rispettate. Il secondo motivo consiste nella penuria di legna (le fascine di tralci di vite, le sarmente), dovuta all’estirpa- zione di molti vigneti nel feudo del paese e al fatto che ormai molti proprietari preferi- scono con i moderni macchinari triturare le sarmente sul terreno per risparmiare sulle giornate lavorative occorrenti per la raccolta e il trasporto delle stesse.

     Per l’edizione del 2012 la fòcara è stata “vestita” (per usare un termine caro ad Eugenio Imbriani, autore del testo “I vestiti di Cenerentola”, Bari, 2012) con i giganteschi cavalli di cartapesta dell’artista della transavan- guardia Mimmo Paladino (realizzati da Carmen Rampino) che non ha riscosso il successo sperato dagli ideatori dell’iniziativa. Tutt’altro! Nel paese subito ci furono levate di scudi da parte di ogni categoria sociale, giovani ed anziani, che, compattamente, attraverso raccolte di firme (104 apposte sulla petizione online all’indirizzo http: // www. firmiamo.it/focara-libera; 370 quelle protocollate al Comune di Novoli), interviste rilasciate agli organi di stampa locali, manifestarono il loro forte e risentito dissenso. Valga per tutti il commento di un firmatario della succitata petizione online:

     “Io novolese all’estero ho scelto di non passare il Natale in famiglia pur di essere a casa per la festa di S. Antonio, e questo non per la festa del vino e per i cavalli […]. Mi faccio 2000 e passa chilometri ed ho delle aspettative, mi aspetto che ci sia quello che ho sempre amato e nulla di nuovo e non mi venite a dire che la Focara si deve rinnovare. […] La Focara è arte, e non c’è alcun bisogno di aggiungerne altra”.

     Per l’edizione del 2013 la fòcara è stata “vestita” con i numeri di Ugo Nespolo, i quali sono serviti anche per il cosiddetto manifesto d’autore nel quale il falò novolese è stato rappresentato come un Arlecchino che dà i numeri.

    La fòcara novolese nel corso della sua storia è stata interessata da svariati tentativi di farla sembrare sempre più bella e monumentale, risentendo delle abilità costruttive dei vari maestri che si sono arduamente cimentati nell’impresa, non certo agevole, di tramandarcela fino ad oggi, tanto da farla considerare ormai bene immateriale della Regione Puglia. Ha cambiato diverse volte forma architettonica: a pignune, a piramide, a tronchi di cono sovrapposti, con la galleria, con oblò, con staccionata fatta con fasci di sarmente disposti in senso verticale tutt’intorno alla circonferenza dei piani, ma mai si è osato deturparne la semplicità, la genuina naturalità, che è, poi, la sua salentinità, con iniziative cervellotiche che con la nostra tradizione, legata al fascio di sarmente ed al covone di grano, non hanno niente in comune. Speriamo che chi di dovere receda dal proposito di farci negativamente stupire ed ad patres redeat.

Salvatore Epifani

 

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