I Mattei e la schiavitù

18.01.2015 08:46

     Sul numero unico “Sant’Antoni e l’Artieri”, anno XXXVIII, No- voli, 17 gennaio 2014, p. 5, Antonio Politi ha pubblicato un suo articolo, intitolato Lu suennu noularu. Inno del Cantastorie allu Zingale della novolesità smarrita, nel quale afferma che i nostri antenati all’epoca dei Mattei agognavano riscattarsi dalla situazione di schiavitù in cui, a suo dire, si trovano angariati dai Signori di Novoli. Era talmente forte questo sentimento di libertà in loro (appunto un sogno) da spingerli, una volta deceduto l’ultimo dei Mattei, Alessandro figlio di Paolo Bonaventura, ad innalzare la fòcara ad perpetuam rei memoriam. A sostegno di questa sua opinione non porta nessuna prova documentaria, ma arriva perfino ad affermare che il falò ai novolesi fu richiesto addirittura dalla Madonna allorché apparve alla popolana Giovanna e

 

     “[…] cullu pane ‘mmanu, ne tisse a n’irginella: ‘nu bu picciati cchiui mo’ passa lu quarela, […] ca te Baron Mattei, nu c’è cchiui discendenti. Scirratibu te tuttu, ca foste schiavizzati, e cu nu saccia ceddri addu l’iti pricati. Ma cu tiniti mmente ca b’aggiu liberati, la Focara ddumati!!!’ Questo è quanto è dato di sapere di quel tempo per bocca della gente e delle pochissime fonti cartacee sfuggite alla distruzione per la damnatio memoriae”.

 

     No! Questo è quanto afferma Antonio Politi, cantastorie di sogni di sua invenzione, il quale, inoltre, alla fine del suo infelicissimo articolo, fa diventare il colera (“qualera”) del brano succitato “peste nera”, allorché, trattando della morte degli ultimi Mattei Signori di Novoli, afferma, come al solito apoditticamente:

 

     “Paolo Bonaventura ed Alessandro morirono di peste nera, a distanza di soli sei [sic!] mesi uno dall’altro, dal giugno 1705 al marzo 1706”.

 

     In quegli anni a Novoli non c’è stato il colera e non c’è stata nemmeno la peste. Il “morbo asiatico” (così era detto nell’Ottocento il colera) fece la sua prima comparsa in Europa nel 1817 e nell’Italia meridionale a partire dagli anni trenta del XIX secolo. Basta consultare qualsiasi testo di storia demografica o di storia delle epidemie per apprendere questo. Sicché il Politi ci ha fornito una notizia antistorica, collocando ai primi del 1700 un evento che s’è manifestato in Italia oltre 120 anni dopo. La peste poi, a Novoli e nell’attuale provincia di Lecce, non è attestata nei secoli XVIII-XIX; quella terribile del 1656 che devastò Napoli non arrivò a Lecce, si dice per intercessione di S. Oronzo; come non giunse nemmeno la peste di Conversano del 1690-1692, perché le autorità preposte alla salvaguardia della salute pubblica organizzarono un efficace cordone sanitario che impedì all’epidemia di estendersi, arrestandosi a Castellana Grotte, che, oltre ad essere rinomata per le sue splendide grotte, è meta di turisti anche l’11 gennaio di ogni anno, allorché, nei vari quartieri del paese, per ricordare l’evento, si accendono le fanove.

     Le contraddittorie e gratuite affermazioni del Politi non sono causate da sviste o da lapsus, nei quali chiunque povero mortale può incorrere. Sono, invece, il frutto di sue ipotesi poco meditate e, soprattutto, non verificate da una seria ed approfondita ricerca storica. Anche nel 2013, nel suo S. Maria de Novule 1707-1807. Il pane e il fuoco della libertà, scriveva:

 

     “Alla Madonna delle Messi [sic!] ci si rivolse nel 1703, come altre fiate [sic!], perché cessasse la carestia … e non solo. Certamente ci si rivolse perché cessasse pure la peste nera […]. Nel 1706 cessò la carestia ed il colera e dal marzo 1706 non ci furono eredi della famiglia Mattei. I loro cadaveri furono seppelliti nello stesso giorno della morte nella tomba di famiglia in Villa Convento e ciò fa ipotizzare che furono colpiti da malattia contagiosa”.

 

     A distanza di un anno il Politi (e non certamente “la bocca della gente”, che a lui serve come dito mignolo dietro il quale nascondere le sue invenzioni, i suoi “sogni”) è ritornato sullo stesso argomento per ribadire affermazioni puramente ipotetiche che richiedevano almeno un briciolo di umiltà, verificando, attraverso lo studio della bibliografia relativa alla storia delle epidemie occorse nel periodo storico preso in esame, se le sue congetture fossero plausibili o meno.

     È, poi, del tutto gratuita, offensiva e blasfema nei riguardi della Madonna l’affermazione di Antonio Politi allorché sostiene che la Madre di Dio avrebbe richiesto ai novolesi, tramite l’umile Giovanna (la irginella, come vien detta dal Politi nel suo Lu suennu noularu), di accendere ad rei memoriam la fòcara quale segno della liberazione del paese dalla tirannide dei Mattei, fulminati, grazie al suo intervento, dalla peste nera:

 

     “Scirratibu te tuttu, ca foste schiavizzati, e cu nu saccia ceddri addu l’iti pricati. Ma cu tiniti mmente ca b’aggiu liberati, la Focara ddumati”.

 

     No! La Madonna queste cose non le ha fatte e non le farà mai! La Madre di Dio, che ha sofferto compostamente per la morte del suo figliolo tanto amato e messo ingiustamente in croce, non può assoluta- mente essere tirata in ballo quale responsabile della morte di due persone (padre e figlio, peraltro), neanche se queste si fossero macchiate dei più orrendi delitti. Evidentemente, il Politi, che pure ha una certa età, non ha ancora compreso appieno il messaggio cristiano, che ha quali solidissime ed incrollabili fondamenta l’Amore (con la A maiuscola) incondizionato verso tutti, specialmente nei confronti di chi ci vuole male. Nessuno che si dica seguace del Cristo può nutrire sentimenti di vendetta. Non sarebbe più cristiano. A maggior ragione, Maria, Madre di Dio, non poteva assolutamente nutrire sentimenti di vendetta o farsi mediatrice presso il Figlio per punire con la morte due persone. Altrimenti, non sarebbe stata prescelta ad essere genitrice di Dio e non sarebbe stata concepita senza l’onta del peccato originale, cioè non sarebbe stata Immacolata. La Tutta Santa nell’iconografia della medaglia miracolosa, coniata all’indomani dell’ apparizione a suor Caterina Labouré al numero 140 della rue du Bac a Parigi nel luglio 1830 ed il 27 novembre del medesimo anno, è rappresentata con le mani distese protese verso terra, verso di noi. Mani che danno l’idea di inclinarsi tanto sono cariche di raggi luminosi che vi fuoriescono e che stanno a simboleggiare le infinite grazie che la Madonna elargisce alle persone che gliele chiedono (“O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi”). Una Madonna di tal genere non può nella maniera più assoluta far la grazia di far morire nessuno, anche perché nel rovescio della medaglia, sotto il monogramma di Maria (la lettera M sormontata da una croce), trovansi i cuori sacri del Figlio e della Madre, circondato il primo da una corona di spine e trafitto il secondo da una spada, che di per sé sono abbastanza eloquenti nel dirci che Gesù e Maria sono solidali, sono uniti nella compassione, nella sofferenza dell’altro, che è, poi, la pienezza dell’Amore.

     Ritorniamo al nostro discorso per dire che fino ad oggi, alla luce delle ricerche storiche effettuate, non esiste nessuna testimonianza, di nessun tipo (archivistica, letteraria, iconografica), in base alla quale si possa affermare, come fa il Politi, che all’inizio del XVIII secolo i novolesi iniziarono ad erigere, su richiesta della Madonna, la fòcara in onore di Sant’Antonio Abate. Il documento più antico nel quale si parla del novolese falò è un articolo datato 18 gennaio 1893 ed apparso su “La Gazzetta delle Puglie” del 21 gennaio del medesimo anno. Della stessa epoca sono le foto più antiche che testimoniano delle ridotte dimensioni del falò rispetto a quelle gigantesche che si avranno nel XX secolo ed ai nostri giorni. Quindi, la fòcara non ha niente a che fare con gli ultimi Mattei, intorno ai quali non esiste per altro documento di sorta che possa farceli immaginare come persone talmente cattive da augurare loro la morte.

     L’unico neo che abbiamo trovato in quella che oggi si chiama “fedina penale” è il fatto che in casa i Signori di Novoli avessero degli schiavi. Circostanza quest’ultima già a suo tempo rimarcata da Oronzo Mazzotta, nel suo I Mattei Signori di Novoli (1520-1706), a conclusione del suo giudizio decisamente negativo su Alessandro II Mattei, e ripresa dal Politi nell’articolo di cui ci stiamo occupando. La schiavitù è senz’altro una brutta cosa. La coscienza moderna l’ha bandita ormai da parecchi anni grazie alle lotte combattute da tante persone in tutto il mondo. Purtroppo, però, bisogna dire che al tempo dei Mattei era quasi naturale che i nobili avessero dei servi alle loro dipendenze. Quello che oggi può sembrare un delitto contro l’umanità, per secoli non lo è stato e continua a non esserlo ancora in alcune parti del nostro pianeta; infatti, i media quotidianamente ci informano della tratta delle giovani nigeriane, della schiavitù per debiti delle famiglie addette alla fabbricazione dei mattoni nel Punjab, dei carbonai del Mato grosso, delle giovani recluse nei postriboli in Thailandia, degli schiavi domestici in Mauritania, etc. Per rettamente giudicare bisogna calarsi nello spirito dell’epoca che si sta prendendo in considerazione. I Mattei di Novoli, come in genere tutti i feudatari, avevano gli schiavi perché ai loro tempi ridurre una persona in schiavitù non era un reato perseguibile penalmente.

     Detenere schiavi non costituiva peccato mortale per la Chiesa cattolica, la quale si preoccupava soltanto dell’anima dell’infelice persona, facendo di tutto perché fosse battezzata; ma, è attestato che anche ecclesiastici salentini avessero degli schiavi alle loro dipendenze. Certamente, i Mattei sono stati anche proprietari di schiavi: due ne ebbe Filippo II ed uno il figlio Alessandro II; ma, ai quei tempi, tutti i ricchi ce li avevano, perché nella vita domestica gli schiavi rappresentavano un lusso, un bene voluttuario, uno status symbol. Non dobbiamo, allora, meravigliarci più di tanto nell’apprendere che dalle alte cariche della Chiesa cattolica (pontefici, cardinali, arcivescovi, vescovi) fino ai semplici, ma ricchi, abati, sacerdoti, chierici, tutti, chi più chi meno, in relazione alle proprie possanze economiche, avessero in stato di schiavitù propri “fratelli”. Nella sola Cattedrale di Lecce, nel periodo in cui a Novoli ci furono i Mattei, circa 450 schiavi furono battez- zati. Quando il figlio di Paolo Bonaventura, Alessandro III, era un giovane di 23 anni, a Lecce il vescovo Michele Pignatelli l’8 dicembre 1685, vigilia dell’Immacolata, personalmente dette l’acqua lustrale a due suoi schiavi originari di Corone, due ragazzi di 13 e 12 anni, il primo chiamato Amer, il secondo Ibraim. Nell’attuale Provincia di Lecce, detentori di schiavi furono, tra le supreme cariche religiose, persino l’Arcivescovo di Otranto, Mons. Marcello Acquaviva, ed il Vescovo di Gallipoli, Mons. Antonio Perez de la Lastra; a centinaia si possono contare i nomi dei sacerdoti, abati, chierici che compravano schiavi. Alcuni, poi, erano veri e propri trafficanti di schiavi, come i sacerdoti Giovanni Battista Gravili e Oronzo Gravili (zio e nipote) ed il diacono Gennaro Caretti. Pertanto, da questo punto di vista, la sottolineatura di Antonio Politi che Filippo II Mattei avesse in casa degli schiavi (ma, come abbiamo visto, ce li aveva anche il figlio Alessandro II), non può essere presa in considerazione per delineare un profilo negativo di casa Mattei, durante la cui baronia, gli abitanti di Santa Maria de Novis, sarebbero vissuti, sempre secondo il Politi, per ben 186 anni, in condizione di schiavitù. Tre schiavi soltanto, in quasi duecento anni (due di Filippo II, uno di Alessandro II) sono stati documentati essere stati di proprietà dei Signori di Novoli che al tempo dell’ultimo Mattei, Alessandro III, contava circa 1850 abitanti. Poco cosa, quindi, in confronto a padroni di alto rango, come, per esempio, il cardinale Ippolito de’ Medici, il cardinale d’Este, il principe Mario Chigi, fratello del pontefice Alessandro VII, che nel 1663 per quattro mesi cedette a nolo 33 suoi schiavi alla marina pontificia; ed ancora: la potentissima famiglia trapanese dei Fardella che disponeva di un centinaio di schiavi; il nobile senese Buonsignore Cacciaguerra (40 schiavi); il principe catanese Antonio Statella (16 schiavi); Giovanni di Mastroandrea della nobile famiglia di Alcamo (16 schiavi); il palermitano don Berlingieri Requesens, capitano generale delle galere di Sicilia (14 schiavi). Chiunque disponesse di quattrini amava farsi vedere circondato da servi per dimostrare, appunto, la propria ricchezza, e, come nel caso del vicerè di Napoli, il marchese d’Astorga (1672 - 1675), per emulare gli ottomani tenendo nel suo palazzo un vero e proprio harem. In confronto i Mattei erano dei “poveracci”. Soltanto con un nuovo diluvio universale la Provvidenza divina avrebbe disin-estato il Salento, il Sud d’Italia, lo stato della Chiesa, la Toscana, l’Europa, l’Impero ottomano con le sue dipendenze del Nord Africa di Algeri, Tunisi, Tripoli, perché dappertutto, nei secoli XVI-XVIII, troviamo gente ridotta in schiavitù o angariata e tartassata. Altro che far fuori soltanto due piccoli signorotti locali, per i quali, contrariamente alle illazioni politiane, siamo in possesso di adeguata documentazione sia letteraria che artistica che ci permette di esprimere un giudizio tutto sommato positivo. Altri prima di me hanno in più di una occasione messo in risalto la passione per l’arte e per le belle lettere, nonché il mecenatismo dei Mattei. Sicché, concludendo, non posso che affermare che tutto sommato i Mattei a Novoli, a Villa Convento e a Lecce sono stati benemeriti della cultura, da loro tanto amata da dar fondo alle loro casse, anche se non navigassero economicamente in buone acque. 

     Sul numero unico S. Antonio e l’Artieri anno XXXIX, Novoli, 17 gennaio 2015, p. 17, il Politi, nel vano tentativo di correre ai ripari su quanto aveva scritto l’anno precedente sul medesimo numero unico, ha pubblicato un suo articolo dal titolo “Sui Mattei tiranni di Novoli”. Il titolo, in realtà, non rispecchia il contenuto dell’articolo, perché non si prova affatto tale tirannia; il Politi, come nell’articolo dell’anno 2014, si limita a riportare soltanto l’uccisione di Pier Antonio Mattei. Però, mentre nell’articolo del 2014 sosteneva che “Pier Antonio nel 1562 viene ucciso in circostanze misteriose”, in quello del 2015, travisando completamente il senso da me dato alla portata rivoluzionaria delle idee illuministiche, arriva a scrivere:

 “Tuttavia non è consentito travisare la storia attribuendo ad idee illuministiche esportate dalla Rivoluzione Francese nel 1979 [sic] l’anelito di libertà dei nostri padri che si misero in discussione già nel 1559, uccidendo il figlio unigenito del tiranno al quale avevano intentato un processo”.

     Non si può dire che Pier Antonio Mattei fu ucciso in “circostanze misteriose” nel 1562 e poi dare a quell’omicidio una valenza rivoluzionaria che si concretizzò nel 1559. Ma l’assassinio avvenne nel 1562 o nel 1559? Come il lettore può ben vedere non si tratta tanto di voler mettere in risalto dei refusi tipografici [vedi anche 1979 per 1789], che chiunque può commettere con la tastiera, quanto voler far notare l’assoluta apoditticità delle affermazioni di Antonio Politi, il quale nel prosieguo del suo discorso ricorre a degli autori non citati nel suo articolo del 2014, ma da me riportati nelle note n. 2 e n. 4 a pp. 127-129 del mio libro I Mattei, la fòcara e S. Antonio Abate. Perché il Politi non li ha citati nel suo lavoro del 2014? Evidentemente perché non li conosceva. Ragion per la quale, nel suo “amputato” albero genealogico della famiglia Mattei ometteva, tra i sette figli di Filippo II, Antonia, moglie di Andrea Francone Barone di Latiano e di Sava, e, tra gli undici figli di Alessandro II, Dorotea, mentre cambiava il nome ad Aurelia che, a suo dire, si chiamava Amalia. La ricerca la sta effettuando adesso, tant’è che si ripromette di ritornare sull’argomento “con dovizie di particolari in altra sede”.

     Alcune osservazioni mi preme fare sul modo di scrivere di Antonio Politi da me paragonato a don Galeazzo (papa Caliazzu) di Lucugnano. Anche qui, non si tratta di refusi (anche se a volte ci stanno degli errori di grammatica, come a pp. 58-59 del suo Timme ci su statu, Novoli, 1991, dove è dato di trovare “un”, articolo indeterminativo maschile, scritto con l’apostrofo: “un’altro elemento”) quanto di mischiare italiano e latino o italiano e dialetto. Certamente, si può dire Summaria o Sommaria, noularu o noulinu, ma, bisogna stare attenti al contesto linguistico. Se sto scrivendo in italiano, non posso ex abrupto inserire un termine dialettale, senza darne la traduzione italiana: per esempio, nel brano del Politi succitato a p. 10, si dice: “Alla Madonna delle Messi [sic!] ci si rivolse nel 1703, come altre fiate [mia la sottolineatura]”. Abbinare l’aggettivo italiano “altre” al sostantivo dialettale “fiate”, non tradotto in lingua italiana, è errore che commette chi non conosce bene la lingua di Dante. “Fiata/e” si dice in dialetto, non in italiano. Faccio un altro esempio: “madre” in inglese si dice “mother”; uno non si sognerà mai di dire, mentre sta parlando in italiano, “mia mother”. Ancora: se sta parlando un cittadino di Campi Salentina o di Salice Salentino, non è errato dire noularu/i, perché così ci chiamano i nostri vicini. Sicché è inutile scomodare addirittura Gerhard Rohlfs (dal Politi scritto Rolfs) e Oronzo Parlangeli per dimostrare che si può dire in un modo e nell’altro. Tutti sanno che i cittadini di Novoli chiamano se stessi noulini. Se così stanno le cose, il Politi, per dimostrare che aveva ragione nell’intitolare il suo articolo Lu suennu noularu avrebbe dovuto semplicemente affermare di essere un cittadino di Campi Salentina. Io non mi sognerò mai di dire Gerardo Rohlfs, anche se in italiano Gerardo è corretto. 

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