Giochi...senza frontiere
Giocare a tuddri
Con cinque sassolini, scelti talvolta tra quelli che si trovavano per strada, si effettuavano varie gettate chiamate nel gergo novolese “a ndausu”, “a do do”, “a tre tre”, “a qua qua”, “a manu china”.
Nella prima fase del gioco bisognava gettare i cinque sassolini per terra in modo da risultare abbastanza distanziati tra loro, per poi prelevarne uno con le dita senza toccare quelli vicini, altrimenti si passava il gioco all’avversario. Riuscita questa mossa, si lanciava in alto il sassolino, ma bisognava contemporaneamente prendere, uno alla volta, gli altri sassolini da terra, fino alla fine.
Nella seconda gettata si dovevano prendere i sassi a due a due; nella terza, prima uno poi tre; nella quarta, tutti e quattro insieme. Nell’ultima fase del gioco, detta “ a manu china”, si tenevano tutti e cinque i sassolini nel cavo della mano e si lanciavano ad una certa altezza facendo attenzione, però, a farli ricadere e trattenerne il numero più alto possibile sul dorso della mano. I tuddri che vi rimanevano costituivano il primo punteggio del gioco, il quale, a seconda della bravura dei partecipanti, poteva prevedere altre “figure”, tra le quali occorre ricordare quella che consisteva nel far passare i sassolini attraverso una specie di porticina costituita dal dito pollice ed indice disposti a terra ad arco.
MADAMA DORE’
- Oh quante belle figlie, Madama Dorè, oh quante belle figlie!
- Son belle e me le tengo, Madama Dorè, son belle e me le tengo!
- Il re ne vuole una, Madama Dorè, il re ne vuole una!
- Che cosa ne deve fare, Madama Dorè, che cosa ne deve fare?
- La vuole maritare, Madama Dorè, la vuole maritare!
- Con chi la mariterebbe, Madama Dorè, con chi la mariterebbe?
- La mariterebbe con un principe, Madama Dorè, la mariterebbe con un principe!
- Entrate nel mio castello, Madama Dorè, entrate nel mio castello!
- Nel vostro castello sono entrata, Madama Dorè, nel vostro castello sono entrata!
- Scegliete la più bella, Madama Dorè, scegliete la più bella!
- La più bella l’ho già scelta, Madama Dorè, la più bella l’ho già scelta!
- Portatela nel vostro castello, Madama Dorè, portatela nel vostro castello!
- Girerò, girerò, la più bella io prenderò. Ho girato, ho girato, la più bella ho pigliato!
A questo punto, la ragazza scelta si staccava dal gruppo delle compagne e si metteva dietro la richiedente appoggiandole le mani sulle spalle. La cantilena sopra riportata veniva ripetuta tante volte quante erano le bambine partecipanti al gioco.
Fitu (trottola dei poveri)
Lu fitu era una piccola trottola di legno duro e resistente a forma di pera che aveva al centro della parte più sottile un chiodo di circa un centrimetro sul quale la trottola doveva “fitare” (girare) vorticosamente. Per ottenere questo scopo bisognava avvolgere intorno allu fitu “lu lazzu” (il laccio), iniziando dalla punta che veniva bagnata alquanto sputandoci sopra o leccando per evitare che i primi giri “si scacassero” (si sfacessero), cioè non rimanevano a posto e l’avvolgimento non reggeva. Finito di avvolgere ben stretto il laccio alla trottola, dopo avere assicurato l’estremità non avvolta tra l’anulare e il medio, si afferrava lu fitu tra pollice e indice, lo si lanciava a terra con impeto e, simultaneamente, alla fine del lancio, si dava uno strappo al laccio.
Lu fitu poteva essere buono ( “pinnetta”, piccola penna) o cattivo (“traiarinu”). La trottola buona doveva avere queste caratteristiche: “fitare” (girare), reggendosi ritta sulla punta, a lungo, sì da sembrare immobile sino alla fine del movimento rotatorio. Lu fitu cattivo “fitava picca” (girava poco); saltellava per terra; si muoveva a zig-zag disordinatamente in tutte le direzioni tanto da meritarsi l’appellativo di “trajarinu”, da “traja”, da cui trae origine il verbo “trajare”, fare come la traja, che è l’erpice, il quale legato dietro un quadrupede, serviva, e credo serva ancora, a rendere piano il terreno da semina. Il suo percorso era molto irregolare, a seconda delle sporgenze e dei piccoli avvallamenti del terreno.
Due erano soprattutto i modi di lanciare la trottola:
- “subbra manu” (“sopra mano”) con evoluzione del braccio e della mano in alto, all’altezza della testa, ma mirando a terra e sempre con grande impeto;
- “sutta manu” (“sotto mano”) con lancio orizzontale in avanti e quasi simultanea tirata indietro, per far svolgere il laccio che imprimeva allu fitu un violento movimento di rotazione.
Tanti erano i giochi che si facevano cu llu fitu. Ne descriverò due: quello più semplice, che anch’io ancora oggi so eseguire; e quello molto più difficile riservato ai più bravi.
Il primo, detto “a ci cchiui fita” (“a chi sa far durare di più il movimento rotatorio”), terminava con la vittoria di colui il cui fitu si “stutà” (“si fermava”) per ultimo.
Col secondo si giocava a “ssordi” (“soldi”). Si tracciava sul terreno della strada (che allora non era asfaltata) un cerchio della grandezza più o meno di un metro di diametro. Ogni giocatore metteva al centro del cerchio la propria posta in modo da formare una pila di monete. Si faceva a “tueccu” (“tocco”) per chi doveva iniziare per primo. Questi prendeva posizione con la trottola ben impugnata e, mirando ai soldi, la lanciava energicamente sul bersaglio. Se faceva centro, poteva accadere che qualche moneta uscisse fuori dal cerchio, e in questo caso era vinta. Se la trottola “fitava” ancora, come normalmente avveniva, il giocatore la faceva andare, con un abile movimento, sul palmo della mano, sulle altre monete per farle uscire fuori dal cerchio. Il giocatore terminava la sua azione quando la trottola terminava di “fitare”, e cioè “se stutà”. Il gioco passava di mano in mano finchè c’erano monete dentro il cerchio. Quando non ce n’erano più , il gioco era finito e si ricominciava.
Giocare con la nguzza
(il baseball dei poveri)
Questo gioco, che si effettuava in due o in quattro, a compagni, aveva bisogno di due attrezzi:
- la nguzza, un pezzo di legno di circa 10 cm., appuntito ai due estremi, a sezione circolare o quadrata di circa 2 cm. di lato; messo a terra, salta in aria se si batte su un’estremità;
- la mazza, una striscia di legno larga circa 5 cm., spessa circa 1 cm. e lunga più o meno 40 cm., serviva a battere sulla nguzza. Con la mazza si circoscriveva un cerchio di una certa grandezza in mezzo alla strada, che allora era in terra battuta e permetteva di essere graffiata. Quindi si faceva a tocco per stabilire chi doveva iniziare il gioco e si decideva il numero di “ventine” (una ventina era 20 volte la lunghezza della mazza), che si dovevano guadagnare per vincere. La posta in gioco consisteva spesso nel prendere, da parte di chi perdeva, sulla schiena il vincitore e portarlo in giro per una certo tragitto pattuito.
Chi era stato sorteggiato col tocco iniziava il gioco, stando in mezzo al cerchio, lanciando in alto la nguzza e cercando di colpirla con la mazza per mandarla più lontano possibile. Se non la colpiva al primo lancio, poteva ripetere il tentativo fino a tre volte. Era permesso, se si colpiva la nguzza facendola allontanare dal cerchio, uscire velocemente da questo per raggiungerla, ribatterla e spedirla ancora più lontano. L’avversario doveva andare a prendere la nguzza e lanciarla verso chi era nel cerchio per farla andare dentro o, quanto meno, il più vicino possibile; se, infatti, la nguzza entrava nel cerchio o si fermava a una distanza minore della lunghezza di tre nguzze, egli risultava vincitore e andava a sistemarsi nel cerchio. Quando la nguzza lanciata si trovava in aria nei pressi del cerchio, colui che era dentro poteva respingerla, a patto di non uscire dal cerchio.
Se il lanciatore della nguzza non era riuscito a togliere il possesso del cerchio all’avversario, questi aveva il diritto di battere con la mazza tre volte sulla punte della nguzza per farla allontanare il più possibile dal cerchio. Quando, dopo il colpo sulla punta, la nguzza era in aria, poteva batterla quante volte voleva, sempre in aria, cosa questa che riusciva di rado. Questi colpi in aria non rientravano nei tre colpi che gli spettavano di diritto. A questo punto il battitore doveva chiedere, stimando la distanza dal cerchio alla punta della nguzza, il numero di mazze. All’avversario non rimaneva che accettare la richiesta o rifiutarla. In quest’ultimo caso bisognava misurare per verificare l’effettiva distanza, in mazze. Tale operazione avveniva tra infiniti litigi per le continue frodi tentate dal misuratore (mettere la mazza obliqua, spostare indietro) che si affannava a camminare a gambe piegate, con le braccia protese a terra, e a contare ad alta voce. Finita la conta, potevano presentarsi tre casi:
1) la conta corrispondeva alla richiesta, cosa molto rara;
2) dopo la conta rimaneva spazio prima del cerchio, e in questo caso il più era di nessuno;
3) la conta finiva dentro il cerchio o dopo.
Nel primo e nel secondo caso il gioco continuava con gli stessi protagonisti, che ripetevano tutte le operazioni illustrate; nel terzo caso, chi aveva la mazza, doveva lasciare tutto all’avversario. La partita terminava quando era raggiunta per somme successive il numero di mazze prestabilito; e chi lo raggiungeva per primo aveva il diritto a riscuotere la posta stabilita, che era farsi portare a cavalluccio per un tragitto più o meno lungo.
Mi devo ricredere: serve anche il programma televisivo “Grande Fratello”, in onda su “Canale 5” di “Mediaset”. Oggi, 12/04/2007, ore 18,20, mentre sono al computer per portare avanti questo lavoro, mi sento chiamare a viva voce da mia moglie: “Corri, Salvatore, non perdere tempo: c’è una cosa alla TV che potrebbe interessarti”. Obbedisco, lascio lo “studio” e mi reco subito nel “tinello”, dove abbiamo il televisore. E che cosa vedo? Due concorrenti, di nome Milo ed Alessandro (non posso riferire i cognomi perché non li conosco, né li conosce mia moglie dal momento che nella “Casa” e dallo studio di Alessia Marcucci, conduttrice del programma, i protagonisti del gioco sono chiamati sempre soltanto col nome) sono intenti a costruire, essendo nella “Discarica” e non sapendo come trascorrere il tempo, la “nguzza”, con la quale subito dopo si mettono a giocare, eseguendo i movimenti essenziali da me descritti nelle precedenti pagine. Ciò è molto importante perché dimostra che tale gioco è conosciuto in altre parti d’Italia: a Roma, essendo i due concorrenti romani, ed in Sardegna. Devo, infatti, dire che mia moglie, sarda di Seulo (NU), in un primo momento, allorchè fu da me intervistata sull’esistenza o meno nelle sue zone del gioco che noi, nel Salento (anche nella Grecìa), chiamiamo “nguzza”, non seppe darmi una risposta. Oggi, vedendolo eseguire in TV , mi assicura che era praticato anche nel suo paese, però denominato con un nome diverso: “taddiri”. Peccato che non ho avuto il videoregistratore pronto per registrare quello che avevo appena visto. Mi è venuta, però, un’idea! Impiegando la moderna tecnologia, si potrebbero ricostruire, interessando i ragazzi delle scuole, tutti i giochi tradizionali non più praticati. L’esempio di mia moglie è illuminante: nessuna descrizione sulla carta, per quanto dettagliata e precisa, potrà mai raggiungere l’efficacia della ripresa televisiva, soprattutto quando si tratta di far vedere i vari movimenti sottesi ad ogni gioco, anche di quelli cosiddetti “sedentari”, che poi sedentari non sono. Basti pensare al gioco “te li tuddri”, che, pur eseguito stando seduti per terra, comporta un numero infinito di movimenti delle mani e del busto.
La pezza te casu
E’ un gioco molto antico e diffusissimo nel Salento, al quale non ho mai assistito. Lo riporto nella descrizione di Fernando Sebaste in “Le fasciddre te la focara”, Novoli, 1987, p. 51: “Questo gioco era una vera e propria sfida di potenza e di abilità e l’onore e l’agonismo erano in primo piano. […] Una volta sul posto, si fissavano le regole del gioco: la gara si poteva disputare in due, tre, quattro o cinque “mazze”. La “mazza” era una misura variabile di lunghezza corrispondente alla lunghezza della corsa di una forma di cacio. […] Si tracciava la linea di partenza che non poteva in alcun modo essere superata neanche dalla punta del piede del lanciatore. Si tirava a sorte e si dava inizio alla gara. Il lanciatore faceva un nodo scorsoio ad una cordicella, lo stringeva intorno al dito medio o indice, strofinava la cordicella con l’erba fresca per aumentare l’attrito e l’avvolgeva, quindi, accuratamente attorno alla “pezza te casu”; prendeva la rincorsa e con un colpo deciso ed abile lanciava la forma in avanti e tirava la cordicella per imprimerle un movimento di rotazione. Il “cacio” partiva come un bolide e rotolava giù per la strada, urtando e sobbalzando per decine e decine di metri. Quando la forma finiva la sua corsa (murìa) si metteva un segno e si attendeva il lancio dell’avversario. Era la prima “mazza”, si ricominciava con la seconda e così via. Vinceva chi alla fine della gara aveva fatto percorrere più strada alla “pezza te casu”. La vincita era la stessa “pezza” dell’avversario”.
La staccia
Dei vecchi giochi questo, forse, è l’unico non estinto perché praticato ancora oggi vicino casa mia da maschietti e femminucce. Si costruisce per terra con un pezzetto di gesso rimediato a scuola o, in mancanza, graffiando il terreno con una punta metallica o di legno duro, un rettangolo lungo da 3 a 5 metri e largo 80-100 cm. con uno dei lati corti a semicerchio. Il rettangolo si divide nel senso della lunghezza in tanti rettangoli numerati. Per giocare è necessaria una piccola “staccia” (piastrella di coccio o di pietra liscia). Dopo aver tirato a tocco, chi inizia il gioco lancia la “staccia” dentro il primo rettangolo (detto “casa”). Se non si centra il rettangolo o la “staccia” si ferma sulle righe divisorie, il giocatore “ccappa” (“incappa”), è costretto cioè a lasciare il gioco all’avversario. Lanciata la staccia al punto giusto, il giocatore, camminando a saltelli su di un solo piede, raggiunta la “staccia”, deve mandarla fuori dalla campana, casella per casella, a colpi di piede, ma rimanendo sempre su di un solo piede, e uscirne a sua volta, facendo attenzione a non calpestare le righe. Fatta uscire la staccia dalla prima casella, lo stesso giocatore la lancia nella seconda, dalla quale deve farla uscire con le stesse regole. Così di seguito. Se si sbaglia, si passa la mano all’avversario; ma, quando quest’ultimo a sua volta sbaglia, si riprende il gioco dalla casella che era stata lasciata. Terminate tutte le caselle, si fa “palomba” e si deve percorrere tutto il rettangolo di gioco con la staccia in testa badando a non farla cascare e a non mettere i piedi sulle righe divisorie. Vince chi per primo termina il percorso, andata e ritorno, senza errori.
Gioco della papocchia
La "papocchia" era un antico giuoco d’azzardo che si svolgeva con un pezzo di corda lunga 80 cm, con le due estremità legate tra loro. Chi faceva il giuoco avvolgeva la corda a spire e la disponeva in modo da formare un "8". Si partecipava al giuoco, puntando una posta e mettendo il dito in uno dei cerchi dell’"8". Si vinceva, se tirando la corda, il dito rimaneva intrappolato; si perdeva, se la corda si svolgeva e lasciava libero il dito.
Nel giuoco, però, c’era un trucco (che io conosco): chi disponeva la corda, poteva manipolarla in vari modi e determinare a suo piacimento il risultato finale. Da ciò anche deriva la parola "mpapocchiare", che ha il significato di imbrogliare.
Giochi con soldi o bottoni
A spaccachianche
“Chianche” sono quelle lastre di pietra, quadrate o rettangolari, di varia grandezza che servono per lastricare le strade e altri spazi. Il gioco consisteva nel lanciare una moneta (o un bottone) in aria facendo in modo di farla ricadere il più lontano possibile dalle commessure.
A tozza parite (A batti muro)
Vi partecipavano due o più giocatori. Il primo, tirato a sorte col solito tocco, lanciava energicamente contro il muro una moneta (o un bottone), che rimbalzando andava per terra. Il secondo, per vincere, doveva essere in grado, sempre battendo contro il muro, di far andare la sua moneta alla distanza, al massimo, di un palmo dalla prima. Se non vinceva, tirava il terzo, che aveva la possibilità di scegliere tra le due monete che erano a terra. E così di seguito per tutti i giocatori. Nei casi dubbi, la misura avveniva col palmo della mano. Ed era uno spettacolo vedere il presunto vincitore aprire la mano con forza, fino allo spasimo, e tirare il pollice e il mignolo per allungarli. Poiché alcuni ragazzi dotati di mani più lunghe erano avvantaggiati, accadeva spesso che venisse adottata una misura valida per tutti, costituita da un pezzo di legno o un ramoscello spezzato, chiamato “parmu” (“palmo”).
A bloccu (blocco)
Dopo aver pattuito la posta, si tirava a tocco ed il primo giocatore, riuniti tutti i soldi (o i bottoni), li metteva in blocco nel palmo della mano, disponendoli in un certo ordine, per lui fortunato o scaramantico: per esempio, due di “capu” (testa) e tre di “spiga” (croce). Poneva, poi, l’altra mano in croce sulla prima, piegava le dita, creando un vuoto, nel quale scuotendo faceva muovere e ruotare le monete. Dopo un po’ gettava i soldi in aria, gridando “capu” o “spiga”. Quando i soldi cadevano a terra, egli vinceva quelli che presentavano la figura indicata a voce nel lancio. Con i rimanenti, il secondo giocatore ripeteva la stessa operazione. Quando si giocava con i bottoni, si pattuiva prima quale delle due facce era la testa e quale la croce. I bottoni non erano tutti dello stesso valore. Si andava dalla “furmeddra”, (bottone bianco di camicia) che valeva 1, alla “ndirlicchia” (bottone metallico che chiudeva davanti i calzoni) che valeva 2, alla “madreperla” (bottone un po’ più grosso, incolore, dalla superficie concava molto lucida, donde la rassomiglianza con la madreperla) che valeva 3, al “mezzo barone” (bottone per giacca) che valeva 5, al “barone” (bottone da cappotto) che valeva 10 o anche di più a seconda della grandezza, della bella figura o del materiale pregiato.
A ziloca
La “ziloca” era un quadrato diviso in quattro parti che veniva tracciato per terra, quando questa non era ancora asfaltata. Dalla “ziloca”, dopo il solito tocco, il primo giocatore lanciava una moneta (o un bottone) verso un “rigo” (“risciu”) ad una certa distanza cercando di farla andare il più vicino possibile. La stessa azione a turno ripetevano gli altri ragazzi. Chi s’era avvicinato di più riuniva tutti i soldi e dal “rigo” li lanciava nella “ziloca” vincendo quelli che vi entravano, ma che non stavano nelle commessure. Per gli altri si aveva la possibilità di effettuare un tiro col dito pollice fino a non sbagliare, nel qual caso si passava mano.
A cocotè
Molto simile al gioco della “ziloca” era quello “a cocotè” (una buca, in genere, scavata vicino ad un muro). A questo gioco giocava chi non aveva soldi e si doveva accontentare dei bottoni. Fatto a tocco, il primo giocatore dalla buca lanciava il suo bottone verso un “rigo” ad una certa distanza cercando di avvicinarsi il più possibile . Lo stesso facevano gli altri. Chi risultava primo, dal rigo lanciava verso il “cocotè” il suo bottone cercando di farlo andare dentro. Se non vi riusciva, aveva la possibilità di effettuare un colpo di pollice sul bottone indirizzandolo nella buca. Sbagliando, passava mano.
Altri giochi
Cappettu
“Lu cappettu” è la molla per stendere i panni, che legata ad un filo veniva fatta passare sopra i cavi della corrente elettrica per far volare in aria cappelli e, soprattutto, le gonne delle belle signorine, quando ancora non era stata inventata la minigonna e mancava la T.V. odierna a propinarci ad ogni ora le delizie del gentil sesso.
A lu carburu
Si preparava a terra una piccola buca che veniva riempita d’acqua nella quale si metteva un pezzo di carburo (circa 20-30 grammi). Subito che il carburo incominciava a bollire e a sprigionare gas, si copriva la buca con un barattolo di conserva (da 100 o 200 grammi), bucato al centro con un chiodo e si copriva ermeticamente tutto attorno con del fango. Dopo qualche secondo, il barattolo era pieno di gas compresso. A questo punto si dava fuoco con un fiammifero attaccato ad un pezzo di legno, e il barattolo saltava in aria per 5-6 metri con un notevole scoppio. Di rado, però, succedeva che il carburo creava soltanto una piccola fiammella e non si aveva il botto. Si diceva allora che l’esperimento era fallito e che si era fatta “cicilena”.
A tozza porte
Era un gioco-burla che consisteva nel tenere il capo di una corda stando nascosti, mentre un compagno infilava l’altro capo con una pietra legata nella maniglia di una porta. Chi teneva in mano la corda la tirava di tanto in tanto in modo che la pietra colpiva il legno della porta, comunicando l’impressione che qualche persona stesse bussando. Succedeva allora che il padrone di casa aprisse la porta, ma non vedeva nessuno. Il gioco continuava fino a che la burla non veniva scoperta e, in tal caso, bisognava subito darsela a gambe per non incappare nella reazione incollerita del beffato.
A prendere le lucertole
Si prendeva un lungo filo d’erba, che si assottigliava in cima, dove veniva ricavato un piccolo cappio che veniva infilato nel collo delle lucertole stese sui muriccioli a prendere il sole. Al movimento in avanti della lucertola il cappio si rimpiccioliva e stringeva in una morsa il povero animale.
Alla cua (nascondino)
Dopo il solito tocco, il ragazzo scelto “nguzzaa”, ossia si appoggiava al muro nascondendo il volto tra il braccio e contava fino a trenta, per permettere agli amici di nascondersi. Finita la conta, doveva scovarli e tornare indietro dando un colpo con la mano sul muro. Il primo ad essere scoperto “nguzzaa”; però, poteva succedere che l’ultimo che non “si era liberato”(così si diceva), liberasse a sua volta tutti gli altri, gridando ad alta voce “31 libera tutti, pe mie e pe tutti” (“31 libera tutti, per me e per tutti”), costringendo così a “nguzzare” di nuovo il proprio compagno.
Alla puzza
Dopo il solito tocco, il ragazzo scelto doveva tentare di toccare con la mano, esclamando “Puzza!”, qualcuno degli avversari che doveva evitare di farsi toccare in piedi e doveva stare accovacciato (“cua cua”), quando gli si avvicinava veloce e inaspettato il penalizzato.
A li quattru puntuni
Quattro ragazzi (o ragazze) si ponevano di spalla ai quattro angoli di un crocevia; un altro si metteva al centro. Questi doveva essere così veloce da occupare il posto di qualcuno all’angolo, che troppo sicuro delle sue doti di velocista, si era allontanato troppo dal luogo da lui tenuto, provocando con smorfie e versi curiosi il ragazzo del centro a tentare di soffiare il suo posto.
A ‘ncaddru ‘mpete
In genere quattro ragazzi si allineavano curvi e ben uniti l’uno all’altro partendo dal muro della casa, dove si posizionava quasi sempre il più forte di tutti che doveva fungere quasi da colonna. Altri quattro ragazzi, uno alla volta, dovevano saltare, come nell’attuale attrezzo ginnico chiamato “cavallina”, in groppa dei compagni accovacciati in modo tale da non cadere a terra ed essere accolti distesi tutti e quattro per lungo. Specialmente il primo dei saltatori doveva esibirsi in maniera tanto abile ed agile da spiccare un balzo tanto lungo da lasciare poi spazio abbastanza sufficiente per gli altri tre compagni che erano pronti ad occupare il posto rimasto sulle spalle dei sottoposti. Il gioco era perso quando uno qualunque dei saltatori cadeva o poggiava il piede per terra, e di ciò si accorgevano gli avversari.
Regina reginella
Una ragazzina, che fungeva da regina, si sedeva sul davanzale di una finestra, il suo trono, mentre tutti gli altri, maschi e femmine, si disponevano in un’unica riga di fronte a lei. A turno ogni partecipante le chiedeva: “Regina, reginella, quanti passi mi vuoi dare per arrivare al tuo castello con la fede e con l’anello?”. La regina rispondeva a tutti, manifestando le sue preferenze, assegnando ad ognuno un numero di passi di animali diversi, che si traducevano in passi più o meno lunghi secondo la mole dell’animale, per esempio di formica o di elefante. Vinceva il concorrente più gradito alla regina di turno, in quanto si vedeva assegnare più passi e passi più lunghi.
Salto con la corda
Gioco prettamente femminile era quello del salto con la corda, nel quale le bambine gareggiavano nell’esibizione di resistenza al salto, o da sole, tenendo con le due mani i capi di una corda, oppure saltando la corda che due compagne, tenendo gli estremi, facevano roteare scandendo la seguente filastrocca: “Mela, pera, arancia, uva, limone, “sita” (melagrana), “cutugnu” (melacotogna) e mandarino, mela, pera…”, e così via, fino a quando alla bambina che sbagliava nel salto subentrava quella cui era stato attribuito il nome del frutto che si nominava nell’istante dello sbaglio.
A figurine di giocatori
Questo gioco, molto semplice, si effettuava con le figurine dei giocatori, che ancora oggi attirano i ragazzi allorché incominciano a tifare per la squadra di calcio preferita. Oggi, però, i preadolescenti si limitano ad incollarle sugli appositi album di raccolta o a scambiare i doppioni con gli amici. Una volta, le figurine venivano messe in palio, cioè ce le giocavamo in questo modo: si pattuiva quante figurine ogni concorrente doveva “cacciare” (mettere come posta) e, dopo il solito tocco per decidere chi doveva iniziare il gioco, il primo ragazzo metteva le une sulle altre tutte le figurine, poggiandole per terra; quindi, con un forte colpo dato con il palmo della mano, cercava di farle capovolgere. Vinceva tutte quelle che riusciva a girare. Se ne rimanevano non capovolte, il gioco passava al secondo giocatore, e così via finché tutte le figurine venivano girate.
A ruccu ruccu
Prettamente femminile, si giocava a due a due, prendendosi per mani incrociate e girando in tondo. Mentre si girava quanto più veloce possibile si recitava questa filastrocca:
Lu ruccu ruccu,
lu capasune,
lu tizzune,
lu mangia tuttu.
Il gioco finiva quando le ragazze si stancavano.
Manni manni
Per i bambini di pochi mesi, la mamma o il papà eseguivano questo gioco, tenendo il figlioletto a cavallo sulle gambe e, prendendogli i polsi, gli facevano autoaccarezzare con le manine la propria faccia, mentre declamavano:
Manni manni
la musciareddra
s’ha mangiati
li tinni mei
e a mie nu me
n’ha datu:
isti, isti, te casa mia;
isti, isti te casa mia!
Lu tignusu
Ai più grandicelli, per farli stare buoni, quando erano due o più, si metteva sul tavolo un pugno chiuso appoggiandolo sul mignolo; il secondo vi posava sopra il suo pugno, col mignolo sul pollice del primo, e così il terzo fino all’ultimo, in modo da costruire una piccola torre di pugni. L’ultimo pugno spesso era del più piccolo. A questo punto, il papà declamava:
Ci nce susu
lu tignusu
ce sta face
sta ratta la tigna
tinne cu scinne
non si può
tigne sì, tigne no
tigne sì, tigne no.
Salvatore Epifani