Divin fuoco

02.02.2015 15:21

Questo libro è nato per puro caso per il verificarsi di due circostanze interconnesse. La sera del 17 gennaio 2014, ore 18.30, in Novoli (Lecce), tra le varie iniziative culturali, promosse dalla Fondazione Fòcara per festeggiare degnamente Sant’Antonio Abate, patrono e protettore del paese, era prevista una “Tavola rotonda” finalizzata alla presentazione e discussione, da parte di varie personalità del mondo della politica e della ricerca, di un ambizioso e lodevole “Progetto europeo legato alla rete dei fuochi nel Mediterraneo”, nell’ambito del quale il Comune di Novoli insieme con la Rete italiana di cultura popolare ha intenzione di costituire una rete delle feste del fuoco che si tengono nei vari paesi del bacino del Mediterraneo. Poiché sono socio della Rete italiana di cultura popolare, rappresentata a Novoli per l’occasione dal suo Direttore, Antonio Damasco, decisi di assistere all’evento e mi recai in Piazza Tito Schipa, dove, sotto una tenda appositamente preparata, si teneva il tavolo di lavoro cui partecipò, tra gli altri ospiti, il rappresentante del Comune di Jelsi (Campobasso), Michele Fratino. Il simpatico molisano, allorché arrivò il suo turno per illustrare quello che si fa nella sua regione relativamente all’accensione dei cosiddetti “fuochi di gioia”, dopo una breve introduzione, proiettò alcune sequenze del video “Il ceppo di Natale” del regista televisivo Pierluigi Giorgio. Video interessantissimo, grazie al quale potei ammirare la stupenda faglia di Oratino, che con i suoi 15 metri di altezza sembra voler gareggiare col campanile della chiesa matrice, e le ndocce di A- gnone, che, portate in corteo, trasformano le strade in veri e propri fiumi di fiamme. Inoltre, appresi che fino agli trenta del secolo scorso a Pietracatella si era soliti da parte dei fidanzati portare la serenata sotto la finestra dell’amata con l’ausilio di amici cantori che posavano una ndoccia accesa accanto alla finestra dell’abitazione della ragazza; ma, era il padre che decideva se la figlia dovesse o meno accettare il corteggiatore. Se gli spegneva la torcia gettando un secchio d’acqua sulla fiamma, voleva dire che il giovane pretendente non era gradito, e, quindi, la finestra dell’amata doveva rimanere chiusa, obbligando i suonatori a smettere di suonare e cantare. Viceversa, se la torcia non veniva spenta col getto d’acqua, significava che c’era il gradimento del pater familias, il quale permetteva alla figlia di affacciarsi alla finestra per salutare i canori ospiti, mentre il giovane veniva accolto in casa. Tale costume è da considerare antico retaggio del diritto romano che riconosceva al capo-famiglia (paterfamilias), nell’ambito del più generale diritto di vita e di morte nei confronti di tutti i membri della famiglia, la facoltà di poter fidanzare e sposare figli e figlie anche senza il loro consenso. Da tenere presente che nell’antica società romana i figli costituivano elementi del patrimonio del paterfamilias il quale poteva anche venderli come schiavi; ciò la dice lunga sul carattere eminentemente economico della patria potestà, la cui autorità esercitata sulle donne era detta manus, termine esprimente possesso immediato e continuo.

     L’aspetto più interessante del video, secondo il mio punto di vista, però, è dato da una situazione a dir poco sbalorditiva perché ad un certo punto, parlando della tradizione molisana del “ciocco” di Natale, che il bravo regista ci fa rivivere portandoci colle immagini nella casa dei suoi genitori a Jelsi, si vede suo nonno che, la sera della vigilia di Natale, dopo aver benedetto, da vero sacerdote, con acqua santa alla presenza di tutti i famigliari che esclamano “Viva Gesù”, il ceppo nel focolare, “centro della festa ed altare della casa” (come lo definisce la voce narrante), quando tutta la famiglia è a tavola, si alza, si reca vicino al camino e sul fuoco acceso versa col mestolo un po’ di pasta. Infatti, è tradizione a Jelsi onorare il ceppo, che si cercherà di fare ri- manere acceso per tutto il periodo festivo, versandogli dei sorsi di vino e la prima forchettata di ogni pietanza. Nel filmato si vede che l’e- sempio del nonno è imitato dagli altri familiari commensali i quali, per così dire, continuano a dar da mangiare al fuoco con gli altri alimenti previsti per la cena. Il rito del ceppo, alimentato come se fosse una persona, costituisce, secondo la voce narrante, una sincretistica “offerta ai cari estinti che in spirito si uniscono alla famiglia, a Gesù Bambino nella ricorrenza della sua nascita ed alla natura affinché si rigeneri per futura fertilità”. Immediatamente, scattò nella mia mente il ricordo dei sacrifici che nell’antica Roma si facevano ai Lari protettori della famiglia. Chiesi, allora, copia del video al Sindaco di Novoli, dott. Oscar Marzo Vetrugno, che colgo l’occasione per ringraziare per la gentile sollecitudine con la quale venne incontro alla mia richiesta. Ri- vedendo più volte con più attenzione il video di Pierluigi Giorgio e le foto relative al rito del ceppo di Natale fornitemi da Michele Fratino, che ringrazio anche per avermi voluto annoverare tra i membri della sua “famiglia adoratrice del fuoco”, nonché leggendo la bibliografia relativa ai sacra privata di Roma antica, mi sono convinto che effettivamente a Jelsi si è conservata, nella sua versione “cristianizzata”, la primitiva religione romana domestica che darà successivamente origine ai sacra publica. Il culto pagano del Lare familiare, che il Codice Teodosiano nel 392 d. C. aveva proibito di venerare considerandolo reato grave, rivive ogni anno, il 24 dicembre, nei focolari delle famiglie del piccolo paese molisano, quale prova tangibile che il nuovo (la religione cristiana) nella sua affermazione non poté distruggere del tutto il vecchio (antico culto domestico dei Lari) che resistette specialmente nelle campagne.

     Mentre effettuavo la ricerca finalizzata a trovare gli antecedenti classici del rito del ceppo di Natale, m’imbattei, sempre casualmente, (e così vengo a trattare della seconda circostanza menzionata all’inizio) in un’opera intitolata Zonodrakontis: momenti di una mitologia di Alberto Borghini, il cui secondo capitolo attirò immediatamente la mia attenzione perché in esso vien riferita un’antica tradizione orale raccolta a Tricarico (Matera) relativa alla figura di Sant’Antonio Abate vista nei panni di eroe culturale, cioè di benefattore dell’umanità in quanto apportatore del fuoco, funzione che nel- l’antica mitologia greca era attribuita a Prometeo. Ero già a conoscenza di una medesima tradizione orale raccontata in Sardegna (Logudoro) e pubblicata da Italo Calvino e, prima ancora, sul finire dell’Ottocento da Filippo Valla, ma ero all’oscuro della versione circolante nel paese da cui proviene la reliquia di Sant’Antonio Abate che dal 27 luglio 1924 si venera a Novoli. Tanto nella versione lucana che in quella sarda si evidenzia, al di là delle ovvie differenze narrative che inter- corrono tra i due racconti, un particolare comune nell’espediente escogitato da Sant’Antonio Abate per rubare il fuoco ai diavoli dell’inferno: un bastone di ferula, la cui caratteristica è quella di bruciare nell’interno spugnoso in modo tale che esteriormente il fuoco non si vede affatto. Si tratta del medesimo trucco cui ricorse Prometeo, secondo la tradizione dell’antica Grecia, per rubare il fuoco divino a Zeus.

     Questa sorprendente convergenza diacronica e analogia fra mondo antico e immaginario folklorico attuale mi ha spronato a leggere e mettere insieme le fonti classiche relative alla vicenda del Titano Prometeo. Ne è venuta fuori una sorta di antologia commentata che potrebbe essere utile, soprattutto, alle giovani generazioni, le quali prenderanno coscienza di come il Cristianesimo seppe adattarsi a leggi e ad usanze preesistenti influenzandole e trasformandole, oppure dando loro una sanzione definitiva. 

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